Ironicamente, tra i vantaggi tradizionalmente attribuiti all’adozione dell’euro, si indica spesso il fatto che governi e privati dovrebbero essere al riparo dai problemi patrimoniali creati da fluttuazioni del cambio, particolarmente acuti come ci insegna l’esperienza delle crisi negli ultimi decenni. Basta vedere quanto è accaduto ai paesi latino americani e in altri mercati emergenti, dove, per una serie di motivi, sia i governi sia le imprese hanno difficoltà a indebitarsi nella propria valuta e quindi emettono titoli denominati in dollari. Nella letteratura economica, la patologia che “costringe” un paese a indebitarsi in valuta va sotto il nome di “peccato originale”. Un paese con il “peccato originale” è vulnerabile a crisi che si traducono in una caduta del cambio: invece di generare occupazione, un cambio debole genera fallimenti e difficoltà nel mercato del credito, che si trasformano in una caduta dell’attività economica.
Per molti anni, i paesi dell’area euro hanno preso a prestito emettendo titoli denominati nella “propria” valuta comune, a tassi bassi e con il beneficio di accedere a un mercato dei capitali europeo grande e liquido. La valuta comune sembrava produrre una difesa automatica dai problemi associati con il “peccato originale”, mettendo i grandi debitori al riparo dai movimenti del cambio. Ci stiamo ora rendendo conto che non è così.
Sfortunatamente, non esistono soluzioni semplici. Nei paesi che ora sono costretti a misure draconiane di correzione fiscale, una “svalutazione interna” avverrà anche senza misure politiche mirate, poiché il consolidamento fiscale avrà effetti deflativi sui prezzi: l’inflazione in questi paesi non solo sarà certamente più bassa rispetto alla media europea, ma sarà probabilmente negativa.
Qualunque sia la modalità di svalutazione interna, i problemi patrimoniali per i governi altamente indebitati, ma anche per famiglie e imprese, aumentano il rischio di strategie politiche che mettano l’intero fardello dell’aggiustamento macro e fiscale sulle spalle dei paesi deboli. Sarà difficile uscire dalla crisi senza una qualche forma di azione coordinata, che ad esempio subordini la svalutazione interna alla ristrutturazione del debito (il piano B su cui insiste Nouriel Roubini), o crei le premesse per un aumento della domanda (soprattutto di investimento) nei paesi in surplus. Entrambe le soluzioni sono politicamente spinose - la seconda perché si tratta del surplus commerciale tedesco. Ma un grande surplus commerciale corrisponde per definizione a uno squilibrio dell’investimento interno (troppo basso) rispetto al risparmio. Una ripresa dell’investimento e della spesa nell’area euro rimane una prospettiva di grande razionalità, non solo per l’Europa nel suo complesso, ma anche per i paesi forti. Rimane aperto il problema di come renderla possibile, in una situazione di logoramento fiscale diffuso dopo ventiquattro mesi di crisi e parecchie ombre sui segnali di ripresa.
Nel secondo Marco Pagano discute le prospettive future dell'euro: per recuperare la fiducia dei mercati
occorre dare segnali forti e coordinati che gli stati deboli dell’area dell’euro sono capaci di “mettere a posto” i propri conti pubblici, accettando un monitoraggio e una disciplina comunitaria molto forte sulle proprie finanze.
Ciò vuol dire limitare significativamente la sovranità fiscale degli stati membri, dopo aver già accettato di delegare quella monetaria alla Bce. Ma occorre andare ben oltre la fragile disciplina del trattato di Maastricht e del patto di stabilità, assoggettando direttamente le leggi di bilancio degli stati membri dell’Unione a limiti comunitari vincolanti e a istituzioni dell’Unione Europea che li facciano valere. Non è affatto cosa di poco conto: difficile da realizzare e politicamente dolorosa, come le dimostrazioni e i morti di Atene dimostrano. I governi e soprattutto i parlamenti nazionali saranno disposti a farlo? Se sì, allora da questa crisi l’Europa riemergerà più forte di prima, e procederà verso il completamento della sua struttura sovranazionale con l’introduzione graduale di istituzioni fiscali federali, ovvero la naturale controparte della Bce.
Potrebbe anche essere l’occasione per colmare finalmente il deficit democratico dell’Unione Europea, poiché è naturale che decisioni vincolanti di natura fiscale siano prese da organismi rappresentativi. In tal modo, i limiti alla sovranità fiscale nazionale avrebbero una legittimazione democratica sovranazionale, invece di essere visti come diktat di organismi tecnico-burocratici o di comitati di ministri degli stati membri. Se i paesi dell’euro avranno il coraggio di accettare questa grande sfida, non solo la fiducia tornerà sui mercati, ma questa crisi diventerà l’occasione di una svolta storica nella costruzione europea.
Ciò vuol dire limitare significativamente la sovranità fiscale degli stati membri, dopo aver già accettato di delegare quella monetaria alla Bce. Ma occorre andare ben oltre la fragile disciplina del trattato di Maastricht e del patto di stabilità, assoggettando direttamente le leggi di bilancio degli stati membri dell’Unione a limiti comunitari vincolanti e a istituzioni dell’Unione Europea che li facciano valere. Non è affatto cosa di poco conto: difficile da realizzare e politicamente dolorosa, come le dimostrazioni e i morti di Atene dimostrano. I governi e soprattutto i parlamenti nazionali saranno disposti a farlo? Se sì, allora da questa crisi l’Europa riemergerà più forte di prima, e procederà verso il completamento della sua struttura sovranazionale con l’introduzione graduale di istituzioni fiscali federali, ovvero la naturale controparte della Bce.
Potrebbe anche essere l’occasione per colmare finalmente il deficit democratico dell’Unione Europea, poiché è naturale che decisioni vincolanti di natura fiscale siano prese da organismi rappresentativi. In tal modo, i limiti alla sovranità fiscale nazionale avrebbero una legittimazione democratica sovranazionale, invece di essere visti come diktat di organismi tecnico-burocratici o di comitati di ministri degli stati membri. Se i paesi dell’euro avranno il coraggio di accettare questa grande sfida, non solo la fiducia tornerà sui mercati, ma questa crisi diventerà l’occasione di una svolta storica nella costruzione europea.
Ho paura però che sia ormai troppo tardi e che se le misure suggerite da Pagano (e ancor più gli interventi a sostegno degli stati più deboli e indebitati) fossero davvero sottoposte al giudizio degli elettori verrebbero bocciate sonoramente.
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